mercoledì 18 giugno 2014

Italiani dimenticati di Bahia (1)

Sapevate che a Salvador de Bahia, terza città del Brasile, c’è una grande comunità italiana, di origine e oriunda? Sapevate che illustri docenti universitari, musicisti, imprenditori italiani vivono in questo meraviglioso angolo del pianeta? E sapevate che Salvador non ha neppure un consolato ufficiale italiano (esiste solo un viceconsole onorario) né un comité di italiani all’estero?

Ci sembra davvero singolare che, in un momento in cui l’importanza assunta dai nostri connazionali che vivono lontano è cresciuta vertiginosamente grazie alle ultime elezioni politiche italiane, una delle maggiori e più significative comunità italiane all’estero sia ignorata dalla madrepatria. Ma perché ciò accade proprio in questa splendida città bagnata dal mare della Bahia di Todos os Santos? Le ragioni sono molteplici e certamente lunghe da elencare. Salvador, il porto di Barra. Ma prima di parlare della realtà italiana di Salvador, diamo un minimo di indicazioni storiche sulla presenza italiana in Brasile, come è nata e come si è sviluppata.

Senza dubbio agli italiani in Brasile è associata la pagina più nera, da un punto di vista sociale, della storia d’Italia degli ultimi due secoli: la disgregazione di intere comunità italiane (non soltanto del Sud Italia) come conseguenza dell’emigrazione. Oggigiorno, caro lettore, se perdiamo il lavoro (Dio non lo voglia), ne cerchiamo un altro sugli annunci dei giornali, inviamo il nostro curriculum vitae sperando di avere improbabili risposte. E’ veramente uno stress la ricerca del lavoro, così come le privazioni che siamo costretti ad affrontare a causa della sua mancanza.

Ma tutto questo non è minimamente comparabile con le difficoltà che i nostri bisnonni soffrirono per le condizioni di estrema povertà che causarono l’emigrazione di massa degli italiani all’estero. Pensa un po’, lettore: persone mai uscite dal paesino di appartenenza, data la povertà che causava addirittura la morte per fame, sentivano dire che in altri continenti si regalava terra molto fertile a coloro che erano disposti a coltivarla per la crescita di un «nuovo mondo». I nostri connazionali, molto spesso illetterati, spinti dalla disperazione, salutavano in modo straziante i propri familiari, uscivano dal paesino d’origine recandosi nelle grandi città. E grazie ai pochissimi risparmi si imbarcavano su navi negriere, sporche e piene di altri disperati, sobbarcandosi un viaggio di mesi in un mare a volte burrascoso. E se si salvavano dal contagio di malattie terribili a bordo (cosa allora comunissima), arrivavano in terra straniera.

Al quel tempo non esisteva l’outplacement, e in Brasile la realtà fu una delle più dure tra tutte quelle sofferte dagli emigrati. Taglio di capelli al Pelourinho . La schiavitù era stata abolita grazie a una legge del 1888, e i grandi proprietari terrieri si vedevano costretti ad assumere personale e non più schiavi. Così gli italiani divennero subito i «nuovi schiavi bianchi» del Brasile. Con il miraggio della terra che sarebbe stata loro regalata, i nostri connazionali arrivavano al porto di Santos e poi a San Paolo, oppure sbarcavano in altri porti brasiliani e lì erano reclutati brutalmente dai capixaba, gli assistenti dei proprietari terrieri.

La mentalità dei proprietari terrieri era ancora scopertamente schiavista, dato che non basta una semplice legge a cambiare la mentalità delle persone. E il trattamento ricevuto dagli italiani non era molto dissimile da quello degli schiavi negri. Pieni di debiti per doversi pagare il cibo, l’abbigliamento e il vitto, il nostro povero connazionale diventava uno schiavo a tutti gli effetti, ma rimaneva nella fazenda per guadagnare... una miseria. Che cosa avresti fatto, lettore, se dopo avere abbandonato la tua famiglia, avere fatto un viaggio lunghissimo in una nave lurida e piena di malattie, fossi giunto finalmente nella terra promessa trovando un lavoro massacrante e potendo risparmiare quasi nulla da inviare ai tuoi familiari in Italia? Saresti tornato indietro?

La situazione divenne talmente grave che a fine secolo il governo italiano vietò l’emigrazione italiana in Brasile per questo trattamento disumano ricevuto dai nostri connazionali. Lo fece con il decreto Prinetti del 1902. La situazione era insostenibile e molti italiani abbandonarono le terre per lavorare in città. Qui però l’ostilità e il razzismo si manifestarono con la diffusione di pregiudizi e stereotipi negativi sintetizzati nell`appellativo di carcamano (commerciante disonesto che ruba sul peso della merce «calcando la mano» sul piatto della bilancia per alterarne la misurazione) rivolto ai nostri poveri connazionali. Un`altra immagine del Pelourinho Quante umiliazioni, e che vita disperata per i nostri connazionali all’estero e in Brasile. E qual era l’aiuto della madrepatria? Zero. Il fatto che noi, italiani di oggi, siamo stati privilegiati dalla sorte a non vivere quella realtà non significa che dobbiamo dimenticare, chiudere gli occhi sulla distruzione del tessuto sociale di varie comunità, di numerosi paesi dell’Italia dell’epoca.

Ma torniamo a Salvador de Bahia per osservare che la colpa storica della madrepatria verso gli italiani approdati qui sembra essere immutata. L’abbandono degli italiani di Bahia ricorda un po’ quello del passato. In due parole la comunità italiana che si è installata a Bahia è stata tradizionalmente un po’ isolata, non ha sviluppato molti legami con le autorità consolari di Rio de Janeiro - che è competente per territorio - ed è rimasta anche un po` indifferente, preferendo pensare a se stessa. Ma gli italiani sono tutti là, nell’internet cafè del porto di Barra o in quello del Pelourinho, dove si incontrano e discutono in modo tipicamente italiano dei problemi di sempre. Sembra di essere un po’ in Italia in questi angoli di Salvador, perchè gli italiani in Italia o ai tropici si comportano sempre nello stesso modo, sono sempre gli stessi.

Vediamo quindi di riportare gli umori della comunità di Salvador. Prima di tutto il fatto che Salvador, terza città del Brasile, non disponga di un vero console di carriera ma ne abbia soltanto uno onorario, è gia motivo di insoddisfazione. Difatti gli uffici del consolato onorario non svolgono molte funzioni, mentre la sollecitudine nell`erogare servizi è una vera e propria chimera. Inoltre un’altra questione che sta a cuore ai connazionali ivi residenti è la mancanza di un comité di italiani all’ estero. La circoscrizione dello stato di Bahia rientra in quella di competenza del consolato di Rio de Janeiro, che possiede un proprio comitè. Tuttavia la legge dice esplicitamente che, se la rappresentanza italiana è grande, possono essere creati più di un organismo all’interno della stessa circoscrizione consolare. Basta formulare la domanda al ministero degli Esteri e avere il parere positivo del Consolato.

Considerato che la richiesta c’è già stata, ci domandiamo perché non sia stato ancora autorizzato. E giriamo la domanda al nostro ministro degli Esteri. Per il momento sembra che gli italiani di Salvador debbano arrendersi alla trascuratezza della madrepatria. Ma in che cosa consiste l’importanza di avere un comité? Essere consultati dal ministero competente per ragioni che riguardano gli italiani all’estero, avere un punto di riferimento. Per la comunità italiana di Salvador, seppure non numerosa come quella di San Paolo ma senza dubbio rilevante, la presenza di tale organismo di rappresentanza è anche una garanzia per ragioni di sicurezza.

Putroppo a Bahia i diritti umani non sono molto garantiti, e se un italiano si trovasse in difficoltà con le autorità locali sarebbe bene vi fosse qualcuno ad aiutarlo. Chiamare il numero di emergenza a Rio de Janeiro serve a poco, mentre rivolgersi al viceconsolato onorario di Salvador, quasi a niente. Addirittura Recife, splendida città del nordest brasiliano, ma di importanza minore rispetto a Bahia, dispone di un suo comité. Vi è da chiedersi perché Salvador non l`abbia.

Ma quali sono i criteri per la definizione dei comité in Brasile? Beh, questo è un altro «mistero di Bahia», come sono definiti a Salvador le realtà imperscrutabili, che presenta spesso a situazioni ambigue e misteriose che fanno di questa città un luogo terribilmente affascinante. Ma esiste qualche istituzione che fa qualcosa per gli italiani di Bahia? Il Patronato Uil di Fabio Porta è l’unica eccezione meritevole in un deserto di iniziative. Non che non vi siano strumenti normativi o l`esistenza di patronati: è l’interesse a mancare. Ma data la ampiezza di questo argomento per il momento ci fermiamo qui, riservandoci di riprendere la questione dell`oblio nel quale sono lasciati sobbollire i nostri connazionali di Bahia in una delle prossime edizioni

(Prima edizione pubblicata nel 24 novembre 2006)

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